Il monitoraggio dell’agricoltura sociale in Sardegna

L’erboristeria

Vengo dal Nord Italia. Fin da ragazza ho studiato le piante e il loro potere di curare e rendere più piacevole la vita. Pensavo fosse abbastanza, pensavo di avere le idee chiare sul mio futuro, invece durante l’ennesimo corso intensivo ho capito che le mie competenze potevano essere spalancate come un portone per “prendere in carico” (così si dice, ma è un carico reciproco) persone colpite da patologie psichiatriche o con altre difficoltà molto grandi, per lavorare insieme.

Non ho più abbandonato quella idea, anche se nella mia vita sono successe molte cose. Ho lasciato il Nord, mi sono sposata, sono venuta a vivere e a lavorare in Sardegna. Con mio marito abbiamo vent’anni fa recuperato un vecchio terreno di famiglia e abbiamo iniziato a coltivare erbe officinali; poi abbiamo avviato un laboratorio per la produzione di creme, cosmetici, integratori, preparati buoni per il corpo e per l’anima; infine abbiamo aperto un negozio, la meravigliosa erboristeria profumata di buono che ho sempre sognato, dalla quale offrire a tutti i preparati venuti dalle erbe dei nostri campi.

 

Ma io continuavo a pensare a quel corso intensivo dove si era parlato di agricoltura sociale. C’erano altri agricoltori come me, ma anche amministratori locali, pedagogisti, psicologi, operatori sociali: una strana accozzaglia di persone che facevano mestieri diversi con lo stesso obiettivo. La loro esperienza è stata per me come una vera e propria Epifania; questo vorrei fare, mi sono detta. Da quel momento la difficoltà più grande per noi è stata, ed è ancora, quella di comprendere come rendere realtà quell’intuizione.

 

Abbiamo iniziato aprendo una fattoria didattica, nel 2009, ma non era quello che volevo. Ai ragazzi con difficoltà eravamo in grado di offrire troppo poco, al massimo una gita in campagna e un po’ di svago. Per loro non aveva molto senso, né in termini di autonomia, conoscenza, crescita, né dal punto di vista delle relazioni interpersonali.

Allora abbiamo iniziato a muoverci da soli. Abbiamo contattato la Prefettura per offrici come luogo di inclusione di minori stranieri non accompagnati, è andata molto bene fino a quando la legge non è cambiata e i Centri di prima accoglienza hanno interrotto ogni attività esterna. Quei ragazzini però sono rimasti nel mio cuore. Alcuni di loro li sento ancora, anche se ormai sono grandi. Un paio sono tornati a lavorare qui per qualche tempo, poi hanno preso altre strade. In seguito ha lavorato qui un ragazzo con problemi psichici molto seri. È rimasto due anni, poi se ne è andato anche lui.

 

Passano gli anni, ma il nostro desiderio di “aprirci al sociale” rimane. Mio marito e io pensiamo che tanti ragazzi qui potrebbero partecipare con soddisfazione in ogni fase del lavoro: dalla raccolta all’essiccazione, dalla distillazione al confezionamento dei nostri prodotti erboristici e officinali. Ma è difficile, perché le istituzioni non ci aiutano. La verità è che non hanno idea di cosa sia l’agricoltura sociale; e che con la Asl prima potevamo relazionarci solo perché c’era una dirigente aperta che però purtroppo è andata in pensione, così non abbiamo più contatti; con la Prefettura è lo stesso. E quindi dopo anni io continuo a chiedere, e a chiedermi: ma noi quale strada dobbiamo seguire, con chi dobbiamo parlare, che cosa dobbiamo fare, per avere il permesso e la possibilità di offrire a questi ragazzi due cose di cui avrebbero moltissimo bisogno, e cioè un’opportunità di lavoro vera e un’esperienza umana felice?  

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